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Fin dall'infanzia veniamo abituate a pensare come gli altri ci vedono

In Occidente, nello specifico nelle società capitalistiche europee, le diseguaglianze di genere permeano in ogni spazio e in ogni dimensione, assumendo sfumature differenti.
Si passa dal linguaggio ai comportamenti sociali, riducendo spesso le relazioni a dinamiche di potere e controllo, limitando quindi le libertà individuali.
Le donne, succubi di un mondo tutto al maschile, fin da piccole subiscono un continuo riadattamento del proprio Io agli schemi imposti dal sistema. Schemi che derivano da secoli, anzi millenni, di società organizzate per escludere le donne dalla partecipazione attiva; partendo dai Greci e arrivando fino al 2020. Infatti la subordinazione della donna alla figura maschile persiste tutt'oggi, sono solo cambiate le dinamiche con cui si attua tale sottomissione.
Per discriminazione di genere si intendono la miriade di costrutti sociali e culturali, rafforzati continuamente dalla riproposizione di figure femminili e maschili stereotipate, che innescano un meccanismo vizioso che blocca l'emancipazione, limitando così lo sviluppo sociale di entrambi i sessi.
Fin dall'infanzia veniamo abituate a pensare come gli altri ci vedono. Mi spiego meglio.
I giocattoli (la bambola, il passeggino, la cucina), i colori che indossiamo, i ruoli che ci vengono insegnati e gli atteggiamenti sociali predefiniti sono carichi di un significato sociale profondo, carichi di un valore societario che potrebbe risultare nascosto, ma che in realtà ogni giorno crea degli squilibri tra le identità di uomini e donne. Gli uomini, infatti, non sono considerati idonei alla crescita dei figli o allo sviluppo della conoscenza della gestione delle emozioni; non a caso i loro giochi comprendono la violenza (non l'accudimento), la spericolatezza e l'irresponsabilità. Le bambine vengono trattate e considerate adulte, dunque più mature degli uomini, fin da subito. Molti studi statunitensi confermano che le ragazzine iniziano a vestirsi da sole circa due/tre anni prima rispetto ai loro coetanei.
La cultura che permea nella nostra società, i valori che riceviamo, dunque l'ambiente in cui ci sviluppiamo, indirizzano la nostra identità in una direzione invece che in un'altra. Bambini e bambine, dall'età di cinque anni, è scientificamente provato che ricerchino informazioni sui ruoli in famiglia, a scuola, con i coetanei; per comprendere loro stessi hanno bisogno dell'altro. Non a caso, durante la crescita acquisiranno sempre più conoscenze relative alla società in cui vivranno e su come viverci al proprio interno secondo le norme sociali prestabilite. Norme che però, non tutti apprezzano o sentono proprie.
Ma non solo i giochi orientano negativamente le nostre identità; gli agenti di socializzazione che giocano sugli stereotipi di genere sono differenti. Tra questi abbiamo la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari e mass media. Infatti anche in famiglia, la diversificazione dei ruoli è basata sul genere; le donne si occupano per molte più ore degli uomini delle cosiddette “faccende di casa”, avendo così meno tempo libero a disposizione rispetto agli uomini e quindi limitando la vita sociale e personale delle donne. Le ricerche dell'Istat dimostrano che il 70% del carico lavorativo domestico (cura dei figli e della casa) è in mano alle donne, e solo il restante 30% è affidato agli uomini: questo vuol dire che su 24 ore giornaliere, le donne dedicano più di 5 ore al giorno alla cura in generale, gli uomini a malapena 2 ore e mezza. Inoltre, in Italia le donne assolvono ad un carico di lavoro familiare particolarmente gravoso rispetto ad altri paesi europei, come, per esempio, la Svezia. Anche a livello giuridico le donne subiscono una continua discriminazione; se infatti analizziamo i dati riguardanti l'affidamento dei figli dopo le separazioni o i divorzi, la madre è al 99% la figura principale per l'accudimento e la crescita della prole.
Nella penisola italiana, le donne, soltanto nel 1874, poterono iniziare ad accedere alle Università, anche se, a livello pratico, continuavano ad essere scoraggiate le loro iscrizioni. Nel 1900 risultavano iscritte: 250 donne all’università, 287 ai licei, 267 alle scuole di magistero superiore, 1178 ai ginnasi e quasi 10.000 alle scuole professionali e commerciali. Nel 1914 le iscritte agli istituti superiori (compresi gli istituti tecnici) diventeranno circa 100.000, mentre dal 1994 il numero delle laureate supererà quello dei laureati. Questo a dimostrare che, per quanto le donne siano sempre state segregate ad un solo ambito, abbiano in realtà mille sfaccettature differenti. Lo sviluppo della figura femminile procede strettamente connessa all'avanzamento culturale della società in cui vivono.
Anche all'interno delle istituzione scolastiche l'educazione trasmessa si basa su principi sessisti e dunque diseguali. I libri di testo ripropongono infatti immagini stereotipate della realtà femminile e maschile, rappresentando donne dedite alla vita casalinga e alla cura dei figli, e uomini avventurosi che si occupano invece della vita sociale e lavorativa. Insomma, le immagini sociali riproposte anche in questo caso non corrispondono al reale. Le donne infatti sono ormai da anni inserite nella vita sociale del paese, anche se, in modo differente rispetto agli uomini, ma, vengono comunque raffigurate esclusivamente in ambito domestico. Facciamo un esempio. Sono stati condotti, di recente, studi sugli albi illustrati, dunque sui libri di testo su cui vengono educate intere generazioni di bambini e bambine. La donna è SEMPRE raffigurata con il grembiule, poiché viene considerato il simbolo principale del ruolo femminile, ovvero il lavoro domestico e la cura dei figli. Il ruolo del grembiule non è quello di proteggere gli abiti, ma di sottolineare e confermare un ruolo sociale ben specifico e definito. E il marito, invece? Come viene rappresentato? Mediamente gli uomini, stanchi dalla lunga giornata lavorativa, li troviamo raffigurati seduti sulla poltrona mentre leggono un giornale o guardano la televisione. La poltrona su cui siedono non è una semplice poltrona, ma una massiccia quasi quanto un trono, a simboleggiare il potere domestico che l'uomo possiede. Paradossalmente il lavoro del padre è rappresentato dal suo riposo. La televisione o il giornale riassumono tutto ciò che concerne il mondo fuori dalla casa, come la politica, la cultura o lo sport – ambienti dominati tradizionalmente dagli uomini, in cui sovente le donne si sentono fuori posto e disorientate.
Nuovamente nelle pubblicità il ruolo della cura dei figli è attribuito alla figura materna, sola in questo compito, dal momento che il padre non compare mai in nessuna delle scene della réclame.
Alla donna è da sempre richiesta la presenza costante durante la crescita dei propri figli, occupandosi della loro salute e quindi della loro protezione. In questo modo il messaggio che viene trasmesso è quello della donna dolce e sensibile, sempre a disposizione dei suoi cari. Le donne selezionate negli spot pubblicitari sono tutte giovanissime, pacate, impeccabili nell'aspetto e nel modo di esprimersi, sono quasi, direi, “irreali” e “omologate”. Un altro stereotipo che emerge durante la visione delle pubblicità, è l'uso esclusivo che si fa del colore blu, “ovviamente” utilizzato nei casi in cui si fa riferimento a bambini di sesso maschile, e il rosa, utilizzato solo per rappresentare il mondo femminile. Addirittura le confezioni dei pannolini usano questa differenziazione dei colori, che rende più facile per l'acquirente la comprensione del chi dovrebbe utilizzare quei pannolini, se una bambina o un bambino. Ma perché un colore può essere così carico di significato? Abbiamo detto che il genere è un costrutto sociale e culturale, dunque per poterlo rafforzare bisogna continuamente riproporre per le figure femminili e maschili atteggiamenti che si rifanno alla loro immagine stereotipata, che innesca un meccanismo vizioso che blocca l'emancipazione, limitando così lo sviluppo sociale di entrambi i sessi. Quanto incidono le pubblicità sul comportamento di uomini e donne e sulla società in generale? Come gli individui reagiscono a queste? Vi si adattano? Studi americani degli inizi degli anni Ottanta, sviluppati dalla National Institute of Mental Health, dichiarano che i bambini che guardano continuamente scene violente alla televisione avranno meno sensibilità nei confronti di chi soffre ma che soprattutto saranno più propensi a riprodurre quegli atteggiamenti violenti che sono stati abituati a guardare. Dunque, se la visione di scene violente, crea persone violente, a mio avviso, la visione di uomini e donne standardizzati in ruoli specifici e “immutabili”, crea la riproduzione nella società di tali stereotipi. Infatti, durante le relazioni di tutti i giorni, donne e uomini, bambini e bambine, sono sottoposte a questo stress psicologico che spinge loro a un continuo riadattamento della loro identità, a quella che è l'identità condivisa in base al proprio sesso.
Dai dati a disposizione, risulta che, anche nel mondo del lavoro, le donne subiscono una segregazione occupazionale, quindi sono presenti in modo minoritario nel mercato del lavoro rispetto agli uomini, anche se numericamente nella popolazione mondiale le donne sono in maggioranza. Una donna su quattro, rileva l'Istat, ha subito mobbing a lavoro da parte di uno o più superiori, di sesso maschile. Dinamica a cui gli uomini non sono sottoposti. Per quanto riguarda i ruoli occupazionali, nello specifico quelli di comando, come la politica, le donne risultano essere una percentuale irrisoria, solo l'11%. Ma la discriminazione non finisce qui poiché è trasversale, colpendo quindi in ogni direzione. Anche le cariche per cui vengono assunte sono meno rilevanti rispetto al sesso opposto.
Ancora nel 2020, una donna e un uomo che svolgono la medesima mansione hanno uno stipendio differenziato del 30%, questo vuol dire che se venissero assunti entrambi per fare i camerieri, l'uomo guadagnerebbe 1000 euro e la donna solo 700. Ma questa dinamica discriminatoria avviene anche a livelli più alti della società, infatti la famosa attrice del film Harry Potter, Emma Watson, ha sottolineato come nel mondo del cinema si manifesti lo stesso fenomeno sociale. La cosa assurda è che le donne ottengono risultati maggiori a livello scolastico, dunque abbiamo più laureate che laureati e oltretutto con voti molto più alti rispetto ai colleghi maschi. Quindi qual è il motivo che mantiene vive le discriminazioni di genere? In primis, il sistema economico in cui viviamo. Il capitalismo infatti, da due secoli ormai, riproduce questi fenomeni proprio perché sono funzionali al sistema stesso, per esempio, per la questione del profitto. Pagare meno le donne e mantenerle escluse dalla vita sociale porta ad un guadagno economico non indifferente. Ma la stessa organizzazione societaria sottolinea questa differenziazione dei ruoli e delle possibilità sociali, limitando l'emancipazione di entrambi i sessi. Dunque solo un cambio della gestione e della pianificazione della società potrebbero offrire possibilità migliori e alternative agli individui.